Il datore di lavoro vorrebbe il tuo licenziamento. In pochi sanno che questo comportamento è un reato ed è tutelato dalla legge.
Partiamo subito col dire che la Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza del 18 marzo 2024, n. 7190 ha stabilito che estorcere le dimissioni a un lavoratore equivale a commettere un reato. Si tratta di di violenza privata in contratto e quindi di conseguenza, le dimissioni del lavoratore sono annullabili e non nulle. Vediamo insieme i dettagli.
Indurre al licenziamento è reato
La Cassazione ha specificato che, come chiarito dalla giurisprudenza, “non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di autonomia privata posto in essere in violazione di una norma penale; nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente, per aversi nullità del negozio, che sia sanzionata, anche penalmente, la condotta di colui o coloro che l’hanno posto in essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata; l’individuazione del trattamento civilistico dell’atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto o negozio (Cass. n. 17959/2020, n. 26097/2016)”.
Il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è stato considerato, dunque, affetto da nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c. (Cass. n. 17568/2022, n. 17959/2020 cit.).
Diversamente, ha chiarito la Cassazione: “è stato affermato che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso (cfr. Cass. n. 41271/2021, n. 8298/2012, n. 24405/2008; cfr. anche, parallelamente, Cass. n. 18930/2016, sull’annullabilità del contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell’altro, atteso che il dolo costitutivo di tale delitto non è ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo dell’intensità, da quello che vizia il consenso negoziale)”.
Le dimissioni in questi casi sono annullabili?
In aggiunta è stato stabilito: “che la violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare l’annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite (ad es., può agire anche solo come concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell’esercizio di un diritto, quando la relativa prospettazione sia immotivata e strumentale – Cass. n. 24363/2010); e che le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il relativo accertamento da parte del giudice di merito in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio (Cass. n. 16161/2015)”.
La violenza esercitata nei confronti del lavoratore, nel procedimento penale, è stata definita nel secondo quale forma di violenza privata e “alla qualificazione in sede penale del comportamento del rappresentante del datore di lavoro” va ricollegata la ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”, “determinante vizio del consenso per effetto di violenza morale su una delle parti del negozio”. Perciò in queste circostanze le dimissioni sono annullabili e non nulle.